di Sebastiano A. Patanè-Ferro

giovedì 14 maggio 2015

Redent Enzo Lomanno - Una piuma a Babilonia (estratto)


Ho già avuto modo di scrivere – in altro contesto – di come Enzo Lomanno riesca a rallentare il tempo attraverso il racconto poetico e di come controlli lo spazio attorno a questo. Fin dal titolo di questa raccolta, Una piuma a Babilonia, si ha la percezione di un discorso che racchiude distanze e misurazioni senza mezzo, quasi opposte, micro e macro nello stesso fenomeno spazio-temporale. Si avverte la magnifica analogia di una singola vita a confronto con la Storia e non si può ritenerlo un atto di presunzione, bensì un accordo coerente e armonico tra l’accaduto in sé e l’accadere come riferimento, non più antropomorfo, ma evento naturale. La «piuma ignota» – ignota mica poi tanto – ricade sulla Storia; proprio il suo «volo» la rende meno «ignota» e maggiormente «presuntuosa». Il fenomeno mostra il peso insostenibile di quello che all’inizio può sembrare un nonnulla ma che, in seguito, rivelerà effetti devastanti («Nulla / divenne nulla e confusione») e rigeneratori al contempo («ed io, / semplicemente, / me ne innamorai»), attraverso un dolore che rimane sempre conduttore di riflessione e, sovente, anche inconscio desiderio di ripresa. Centrale, in questi versi, è il concetto di fuga, da intendersi qui come fuoriuscita dai luoghi in cui si cede alla trasgressione. Luoghi dove sembra che ogni cosa si trovi al posto giusto, ma che quasi sempre hanno il sapore, seppur vago, dello squallore, in particolare quando la trasgressione stessa scade in “eccessi” che non lasciano vedere più alcun confine. La fuga, e non come salvezza, ma come risorsa che mantiene e contiene la personalità di un poeta, diventa allora necessaria; un sintomo di crescita sempre presente nel lavoro del Lomanno “fattore” di poesia – a volte estrema – che non rinuncia mai all’esperienza come idea da riutilizzarsi a vantaggio di quella parte di umanità che non riesce a trovare punti di snodo. Altrettanto importante è il continuo contraddittorio con la Storia, che mette in evidenza la capacità e l’obiettività del poeta di confrontarsi con l’intero accaduto. L’umiltà, insieme al riuscire a “vedersi” nella realtà quotidiana con lucidità ed intelligenza, fanno di Lomanno un poeta brillante e consapevole; l’ammissione di “colpe” in quanto uomo pone l’autore, sempre alla ricerca di soluzioni, in una posizione di maestria atta a “dare” ogni risultato applicabile: «forse ancora un istante / il tempo di una fuga / solo / per noi, per voi o per lui // E non attendere / ancora quel poi / che non spieghiamo / mai». Alla domanda «cosa significa per lei la poesia?» così risponde, in un’intervista: «La poesia è il continuum spazio-temporale dell’azione stessa. L’apporto che Noi diamo alla poesia è nullo, non è quello di Creatori, bensì degli esecutori d’una volontà che si capovolge, che esiste fin tanto che è detta, per poi mutare ed evolvere in qualcosa di diverso. Quindi la poesia non si rappresenta attraverso me, ma sono io rappresentato dalla poesia in ogni istante e in modo continuamente diverso». Enzo Lomanno è tra i poeti che spiegano la parola da ogni lato, in ogni minima sfaccettatura, restituendole la forza ed il peso che questa detiene. Non trovo lemma che non stia al posto giusto e non abbia il suono che occorre alla sua descrizione. Spesso mi ricorda Pier Paolo Pasolini, il quale viveva personalmente la strada per poterla possedere integralmente. Non è certamente poeta da scrivania, frutto esclusivo di studio letterario, ma poeta di frontiera, di quelli che l’emozione la devono vivere – per poterne rendere, poi, testimonianza – in quel margine dove s’incontrano amore ed odio, passione e cinismo, lasciando che si mettano a fuoco le dimensioni reali del disagio o del benessere, della gioia come risultato del dolore e viceversa. Non c’è mai – nei testi che compongono Una piuma a Babilonia e altrove – separazione tra l’io poetico ed il sé uomo, bensì una condivisione totale di realtà, nella quale pagina e vita combaciano ed aderiscono in maniera netta. Realtà personale ed intima, ma anche realtà partecipata e pubblica, comune a tutti gli uomini. Dai questi versi scaturisce l’esigenza, politica oltre che esistenziale, di un mondo a misura di figli – riadattati ad un ambiente urbano – che non presenti le enormi discrepanze dell’epoca in cui viviamo. Da qui, a parere di chi scrive, sorge l’urgenza di lasciarsi rappresentare dalla poesia come simbolo di “vissuto” anche nella dimensione della lotta; pensiero che, facendosi parola, assume toni quasi messianici di lotta a favore del rinnovamento, della ripresa di valori lasciati marcire alla deriva di una società che certamente non basa la sua sopravvivenza sui ritmi della natura. Per comprendere a fondo tutti i possibili esiti di questo discorso sarebbe necessario soffermarsi su ogni singola poesia della silloge. Cito però in questa sede una manciata di versi fondamentali: «Al di là / il vuoto contorno / ci resta d’eterno [...] Senza più casa / e nessuna sponda / da dimenticare»; e ancora: «La perdita / mi abita // La perdita / ci abita // E la sua casa / invece / non sorge mai / troppo lontano». Ecco come Lomanno ci invita alla riflessione, a resistere alla sopraffazione del tempo e ad evitare le vie più facili. «Le azioni di fatto sono le parole» dice il poeta, intendendo il lento ma efficace passaggio da un “vivere” e da un “pensare” all’altro, nelle azioni o attraverso di esse, prodotte dell’esperienza personale ma anche di altri vissuti, ricordandoci come l’uomo possa essere in grado di riprendere la strada meno sbagliata. Ce lo presenta con le sue certezze, che invogliano a percorrere i sentieri più adatti ad ognuno di noi, permettendoci di esplorare, capire e condividere l’universo che abbiamo dentro. Così afferma: «Ogni poeta può rivivere fatti e in qualche modo barare su eventi mai vissuti in prima persona, ma questo non fa del poeta un fingitore. Il poeta che, con animo sensibile, assorbe il vissuto di un altro autore è come un antico guerriero che, dopo aver ucciso la preda, ne mangia il cuore per assorbirne la forza e la bellezza». Lomanno ci mostra paesaggi decaduti o in decadimento, attraverso quei percorsi che caratterizzano la polis che viviamo e lo fa con delicatezza e crudeltà insieme, mediante accumuli di Storia vissuta o vista vivere, ma sempre in una specie di “diretta dalla vita”. È questo il segno distintivo della sua opera, fusione di poeta e uomo che ha affondato le mani nel sentimento più alto come nel fango, cosi da ottenere da se stesso la completezza dell’essere e non soltanto dell’esistere.



Una piuma a Babilonia


Ostaggi dell’amovibile,
snodiamo bellezza in fumi
come Sangue Serafino
sulle tastiere.

E contro il Metatron
le proprie virtù.
Fuse parole d’arcangeli
tra cemento e sodomia:
evolute sintassi
della prosa umana.

Dal volo di questa salvazione
una piuma ignota a Babilonia
cade nuovamente presuntuosa.

Gemella e traditrice
ci confonde.



Opponibile 2.0


Ho giurato
aprendo la finestra stamani!

Al mondo
lascio la bocca aperta dall’arsura

Lascio
il ferro;
l’industria meccano quantica del pollice opponibile
Il logoro frusciare delle pagine nel volto contro vento

Lascio
la tachicardica frenesia delle vene
pulsanti sale e miniere polmonari

e braccia rotte
e gambe sfitte
e arterie zeppe

lascio
un buco sul braccio e un tappo nel culo

le persiane sprangate
nei viadotti ulcerosi

o quel guaire sommesso delle notti periferia:
dove cani e tossici sorridono alla luna

e tutto
ma proprio tutto
smette di assordare



Perdita


Un calice amaro
mi sosta in coda
e mille miglia ancora
restano per proseguire

La perdita
mi abita

La perdita
ci abita

E la sua casa
invece
non dista mai
troppo lontano.

Ora dimmi
Tu
che suoli scarpe al vecchio
con parole rincorse a suffragio

Tu che in frantumi
bagni strade e vicoli e città
Tu che di caldo racconti,
tra pani di padri e di nonni
E di poesia, tra lampioni e cortili

Dimmi,
la perdita
ci abita?

Dimmi, se Lei stessa possiede
o è lo scalzo rumore dei piedi
sul freddo mattonato della via
a dominare intervalli e silenzi

Se è vuoto di questo corpo,
o solo margine bianco
pronto per il tratteggio

Vorrei sapere,
sapere
dei difetti pigionanti
Dei buchi d’ossidiana
e del salto e della caduta

Dimmi,
la perdita
ci abita?

O siamo noi
ad abitarla?



Strade


Non avermene se
ho raccattato merda dalle lusinghe,
se, dal per sempre felici d’ossidiana
ho scorticato principi edulcorati
di sifoni cardiaci e deviatoi.

Se
Le strade, loro amo, quasi come cielo
Manifeste, in pozzanghere fuorvianti
e fango che lercia respiro.

Non avermene se
Non credo in te, poiché
non l’ho fatto mai.

Io credo
al giusto marciapiede
Alle giuggiole asfaltate
di quartiere.


Al me
che ancora brama
sui sogni elevati
di una ferrovia. 






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