Sbagliar strada
è arrivare alla neve
e arrivare alla neve
è pascolare per venti secoli le erbe
dei cimiteri.
Sbagliar strada
è raggiunger la donna,
la donna che non teme la luce,
la donna che ammazza due galli in un
secondo,
la luce che non teme i galli
e i galli che non sanno cantare sulla
neve.
Ma se la neve sbaglia cuore
può venire il vento ostro
e poiché il vento non bada ai gemiti
dovremo pascolare ancora le erbe dei
cimiteri.
Vidi due dolenti spighe di cera
che seppellivano un paesaggio di
vulcani
e vidi due bambini pazzi
che spingevano in lacrime le
pupille d'un assassino.
Ma il due non è mai stato un numero,
perché è un'angoscia e la sua ombra,
perché è la chitarra dove si dispera
l'amore.
perché è la dimostrazione d'un altro
infinito che non è suo
e sono le mura del morto
e il castigo della nuova resurrezione
senza fine.
I morti odiano il numero due,
ma il numero due addormenta le donne
e poiché la donna teme la luce
la luce trema davanti ai galli.
e i galli soltanto sanno volar sulla
neve
dovremo pascolar senza posa le erbe dei
cimiteri.
Yo no quiero más que una mano,
una mano herida, si es posible.
Yo no quiero más que una mano,
aunque pase mil noches sin lecho.
Sería un pálido lirio de cal,
sería una paloma amarrada a mi corazón,
sería el guardían que en la noche de mi
tránsito
prohibiera en absoluto la entrada a la
luna.
Yo no quiero más que esa mano
para los diarios aceites y la sábana
blanca de mi agonía
Yo no quiero más que esa mano
para tener un ala de mi muerte.
Lo demás todo pasa.
Rubor sin nombre ya, astro perpetuo.
Lo demás es lo otro; viento triste,
mientras las hojas huyen en bandadas.
Annaspa, annaspa tra i flutti il
maestro, si dibatte tra frulli di pernici e occhi di vecchio poeta!
Figlio delle trame leggere o erede di
rivoli di rosa granadino saltellante sulle spalline del flamenco delle grotte.
Margarita, Margarita, ascolta e
innestati di musica!
Quanto tempo, maestro, dalle edere,
quanto dai pianti nell’arena e quanta invenzione lungo le strade polverose nel
tuo on the road in quell’Andalusia così madre senza mani, legata al patrocinio
dei poeti ma senza occhi: li accecò una risacca vuota, una deviazione
fenomenale d’imprudente vanità.
Ed io che parlo di me e di questa Cuba
da esplorare!
Poi, poi, con le nuove risorse mi
racconterò il perché, ora che da qui vedo il maestro che annaspa, e annaspa,
soffocato dall’idiozia prima che dal fuoco.
(Sai Ignazio, ti ho raggiunto ma non ti
afferro in questa nuova bellezza).
Mi chiesero se fossi amante o amato
risposi nulla perché l’amore non ha parole ed è oscuro, e quello dei poeti ha
sempre una fitta al ventre (specie nelle attese) che non risolve il verbo
perché è maschio e femmina,
crudele e nudo come le cinghie strette
alle caviglie nelle stazioni della polizia
“Che ci facevi là”, o qua, ma cosa
importa del luogo o del perché se non hai transenne che separano.
Nel tempo delle classi si cercavano gli
orpelli per muovere i liquidi degli occhi, ma quando rimasero solo le denunce,
i cristalli aprirono il definitivo della intolleranza e nel contraddittorio i
versi appianavano gli spari nel corridoio di poeti.
Che ti dicevo maestro, sono l’hermano di Conchita, ti sembra poco,
morirò per questo lo sai?
Si che lo sai maestro e non t’importa,
perché la parola non può essere trafitta. Non c’è lancia, diavolo, che regga un
crocefisso!
(voci fuori
campo)
E’
morto, Ignazio è morto…
(rintocchi di
campana)
Alle
cinque della sera.
Erano le cinque in punto della sera.
Un bambino portò il lenzuolo bianco
alle cinque della sera.
Una sporta di calce già pronta
alle cinque della sera.
Il resto era morte e solo morte
alle cinque della sera.
Il vento portò via i cotoni
alle cinque della sera.
E l’ossido seminò cristallo e nichel
alle cinque della sera.
Già combattono la colomba e il leopardo
alle cinque della sera.
E una coscia con un corno desolato
alle cinque della sera.
Cominciarono i suoni di bordone
alle cinque della sera.
Un bambino portò il lenzuolo bianco
alle cinque della sera.
Una sporta di calce già pronta
alle cinque della sera.
Il resto era morte e solo morte
alle cinque della sera.
Il vento portò via i cotoni
alle cinque della sera.
E l’ossido seminò cristallo e nichel
alle cinque della sera.
Già combattono la colomba e il leopardo
alle cinque della sera.
E una coscia con un corno desolato
alle cinque della sera.
Cominciarono i suoni di bordone
alle cinque della sera.
Le
campane d’arsenico e il fumo
alle cinque della sera.
Negli angoli gruppi di silenzio
alle cinque della sera.
alle cinque della sera.
Negli angoli gruppi di silenzio
alle cinque della sera.
Solo
il toro ha il cuore in alto!
alle cinque della sera.
Quando venne il sudore di neve
alle cinque della sera,
quando l’arena si coperse di iodio
alle cinque della sera,
la morte pose le uova nella ferita
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Alle cinque in punto della sera.
Una bara con ruote è il letto
alle cinque della sera.
Ossa e flauti suonano nelle sue orecchie
alle cinque della sera.
Il toro già mugghiava dalla fronte
alle cinque della sera.
La stanza s’iridava d’agonia
alle cinque della sera.
Da lontano già viene la cancrena
alle cinque della sera.
Tromba di giglio per i verdi inguini
alle cinque della sera.
Quando venne il sudore di neve
alle cinque della sera,
quando l’arena si coperse di iodio
alle cinque della sera,
la morte pose le uova nella ferita
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Alle cinque in punto della sera.
Una bara con ruote è il letto
alle cinque della sera.
Ossa e flauti suonano nelle sue orecchie
alle cinque della sera.
Il toro già mugghiava dalla fronte
alle cinque della sera.
La stanza s’iridava d’agonia
alle cinque della sera.
Da lontano già viene la cancrena
alle cinque della sera.
Tromba di giglio per i verdi inguini
alle
cinque della sera.
Le ferite bruciavano come soli
alle cinque della sera.
E la folla rompeva le finestre
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Ah, che terribili cinque della sera!
Erano le cinque a tutti gli orologi!
Erano le cinque in ombra della sera!
Le ferite bruciavano come soli
alle cinque della sera.
E la folla rompeva le finestre
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Ah, che terribili cinque della sera!
Erano le cinque a tutti gli orologi!
Erano le cinque in ombra della sera!
(rintocchi di
campana)
Cosa c’è maestro, era meglio non
ricordare?
L’essenza si muove da sola, non ha
propulsori se non l’emozione da cui si genera e queste parole, maestro, queste
parole, sono genesi di continue pulsazioni essenziali. Il dolore appartiene
all’umanità, io stesso non ne sono affetto. Ma ci sono dolori, che non vengono
dal basso, dolori che nascono prima di
noi e ci tengono in ostaggio, senza farci compagnia. Ricordi i crocifissi,
maestro? Ricordi quante cattedrali attorno a quel dolore?
Ma non c’era solo quello, c’erano i
dolori delle sepolture premature, dei ripari disabitati, di anime senza più
cordicelle.
Nei toni lamentosi di certe elegie
racchiudevi tutta la tua anima, maestro, fino a sentire sbriciolata,
tutt’intorno, l’ inconsistenza dell’incenso attraverso le mani, ormai stanche,
della morte.
(Suono di
campane)
Come
un turibolo pieno di desideri,
passi nella sera luminosa e chiara
con la carne scura di nardo appassito
e il sesso potente nel tuo sguardo.
Porti sulla bocca la tua malinconia
di purezza morta e nella dionisiaca
coppa del tuo ventre il ragno che tesse
il velo infecondo che copre i visceri
mai fioriti con le rose vive
frutto dei baci.
Nelle tue bianche mani
porti la matassa delle tue illusioni,
morte per sempre, e sopra la tua anima
la passione affamata di baci di fuoco
e il tuo amore di madre che sogna
lontane
visioni di culle in ambienti
tranquilli,
filando tra le labbra l'azzurro della
ninna-nanna.
Daresti come Cerere le tue spighe d'oro
se l'amore addormentato toccasse il tuo
corpo,
e come la Vergine Maria potresti
far scaturire un'altra via lattea dai
tuoi seni.
Appassirai come la magnolia.
Nessuno bacerà le tue cosce di brace.
Né ai tuoi capelli giungeranno le dita
che li tocchino come corde di un'arpa.
Oh donna potente d'ebano e di nardo!
il tuo respiro ha il candore dei
finocchi.
Venere con la mantiglia di Manila che
odora
del vino di Malaga e della chitarra.
Oh cigno bruno, hai loti di frecce
nel tuo lago, onde di arance
e spume di rossi garofani che effondono
profumi sui nidi appassiti sotto le tue
ali!
Nessuno ti feconda. Martire andalusa,
i tuoi baci restano sotto le viti
pieni del silenzio notturno
e del ritmo torbido dell'acqua
stagnante.
Ma le tue occhiaie si allargano
e i tuoi neri capelli si mutano in
argento;
i tuoi seni profumati non son più duri
e iniziano a curvarsi le tue splendide
spalle.
Oh donna snella, materna e ardente!
Vergine dolorosa, tu porti inchiodate
tutte le stelle del cielo profondo
nel tuo cuore ormai senza speranza.
Sei lo specchio di un'Andalusia
che soffre giganti passioni e tace,
passioni agitate da ventagli
e mantiglie sulle gole
che hanno tremolii di sangue, di neve,
e graffi rossi fatti dagli sguardi.
Te ne vai nella nebbia dell'autunno,
vergine
come Inés, Cecilia, e la dolce Clara,
mentre sei una baccante che avrebbe
danzato
incoronata di verdi pampini e di vite.
La tristezza immensa che fluttua nei
tuoi occhi
ci racconta la tua vita spezzata e
fallita,
la monotonia del tuo ambiente povero
vedendo passare la gente dalla tua
finestra,
e ascoltando la pioggia sull'amarezza
che ha la vecchia strada provinciale,
mentre risuonano lontano rintocchi
incerti e confusi di campane.
Ma invano hai ascoltato le voci
dell'aria.
Non giunse mai ai tuoi orecchi la dolce
serenata.
Dietro i tuoi vetri guardi ancora in
attesa.
Che profonda tristezza hai dentro
l'anima
se senti nel petto ormai spossato e
stanco
la passione di una ragazza da poco
innamorata!
Il tuo corpo scenderà nella tomba
intatto di emozioni.
Sulla terra scura
spunterà l'alba.
Dal tuoi occhi sorgeranno due garofani
sanguinanti
e dai tuoi seni, rose come la neve
bianca.
Ma la tua grande tristezza se ne andrà
con le stelle,
come un'altra stella degna di ferirle
ed oscurarle.
(Suono
di campane)
Ma cambiamo discorso…
Vogliamo parlare di New York?
Di quando caddi sulle spine di Harlem o
del bordone che ne riempiva l’aria?
Le signorine si davano da fare ma nel
riscontro ci perdevano: troppo lontane dal Guadalquivir o dalle mani lunghe di
Cordova.
Attorno ad un perpetuo e disordinato
girovagare per la piazza, ronzava il triste rientro nella solitudine di un
piccolo lettino senza visioni e prospettive.
Il
grande sogno era Walt:
(voce maschile)
Ascolta,
disse la mia anima,
scriviamo per il mio corpo (in fondo siamo una cosa sola)
versi tali
che se, da morto, dovessi invisibilmente tornare sulla terra,
o in altre sfere, lontano, lontano da qui,
e riassumere i canti a qualche gruppo di compagni
(in armonia col suolo, gli alberi, i venti, e con la furia delle onde),
io possa ancora sentire miei questi versi,
per sempre, come adesso che, per la prima volta, io qui segno il mio nome
firmando per l’anima e il corpo
versi tali
che se, da morto, dovessi invisibilmente tornare sulla terra,
o in altre sfere, lontano, lontano da qui,
e riassumere i canti a qualche gruppo di compagni
(in armonia col suolo, gli alberi, i venti, e con la furia delle onde),
io possa ancora sentire miei questi versi,
per sempre, come adesso che, per la prima volta, io qui segno il mio nome
firmando per l’anima e il corpo
Lo senti
ancora, maestro, con la stessa intensità, oppure questa nuova luce che abbiamo
negli occhi muta le risonanze e le vibrazioni?
Davvero le ampiezze ci limitano? davvero le lunghe
scie di coralli tagliuzzano le parole o sono solo le calunnie dei viaggiatori
delle stanze?
Io
dico che sotto le ali della pernice, ci sono i figli degli assassinati per la
parola, di quei parolai che mai colpiscono di spalle e ballano e cadono assieme
ai giocolieri, proprio come quei fili di stelle che S. Lorenzo vuole a terra.
Una stella così in basso non può splendere e nessuno stellone vi si
fidanzerebbe.
Hai
capito adesso, maestro, cosa voleva dire il re di Harlem?
Che
cosa valgono adesso quelle cinque della sera? Dolore nel ricordare o remissione
dell’incanto visto che siamo pari e di stessa sostanza?
Mugghia
un fantasma di toro adesso, gira un capriolo rosa tra le edere del patio e
nessun sintomo di poesia, solo curiosa mestizia per le dita indolenzite di una
casa chiesa che potrebbe non esserci se fossi stato davvero lì con tutta la
mente. Ma io, noi, siamo la gente che ascolta e sazia la sete di parole, di amori
oscuri e musica!
Margarita, Margarita, ascolta!
Sciogli
le trame del canto e intona quest’alba ché non rimanga duna il senso della
sete.
(suono di
chitarre)
(danzatori di
flamenco)
Io sono Federico, quello rimasto lì è
solo tanti vermi e una pallottola!
Non lo capisco quel ’35 e più che meno quel ’36 pieno di martirio e
calce, quando tutto il potere che,
sbagliando direzione, dall’alto cadde sulle mani della bassezza e non capisco,
maestro, come faccia un uomo a otto zampe a non sentirsi scarafaggio,
pidocchio, piattola… e tutti quei morti in forma
di medaglia o di piccole crocette decorate, o bandiere…?
C’erano le forme della ringhiera già
nelle prime parole sature di niente e nelle allucinazioni, le pulizie per un
marciapiede univoco per la direzione.
In questa nostra mente fiorivano a
milioni i papaveri della Sierra e ogni fiore conteneva il mondo, un mondo che
non era quello che volevamo, ma che certi scorpioni volevano cambiare in
peggio!
(voce femminile)
Voglio dormire il sonno delle
mele,
allontanarmi dal tumulto dei cimiteri.
Voglio dormire il sonno di quel bimbo
che voleva tagliarsi il cuore in alto mare.
Non voglio che mi ripetano che i morti non perdono sangue;
che la bocca marcita continua a chiedere acqua.
Non voglio saperne dei martirii che l'erba produce
né della luna con bocca di serpente
che lavora prima dell'alba.
Voglio dormire un momento,
un momento, un minuto, un secolo;
ma tutti sappiano che non sono morto;
che c'è una stalla d'oro sulle mie labbra;
che sono il piccolo amico del vento occidentale;
che sono l'ombra immensa delle mie lacrime.
Coprimi nell'aurora con un velo,
perché essa mi getterà manciate di formiche,
e bagna con acqua dura le mie scarpe
affinché sia elusa la pinza del suo scorpione.
Perché voglio dormire il sonno delle mele
per apprendere un pianto che mi purifichi dalla terra;
allontanarmi dal tumulto dei cimiteri.
Voglio dormire il sonno di quel bimbo
che voleva tagliarsi il cuore in alto mare.
Non voglio che mi ripetano che i morti non perdono sangue;
che la bocca marcita continua a chiedere acqua.
Non voglio saperne dei martirii che l'erba produce
né della luna con bocca di serpente
che lavora prima dell'alba.
Voglio dormire un momento,
un momento, un minuto, un secolo;
ma tutti sappiano che non sono morto;
che c'è una stalla d'oro sulle mie labbra;
che sono il piccolo amico del vento occidentale;
che sono l'ombra immensa delle mie lacrime.
Coprimi nell'aurora con un velo,
perché essa mi getterà manciate di formiche,
e bagna con acqua dura le mie scarpe
affinché sia elusa la pinza del suo scorpione.
Perché voglio dormire il sonno delle mele
per apprendere un pianto che mi purifichi dalla terra;
perché voglio vivere con
quel bimbo oscuro
che voleva tagliarsi il cuore in alto mare.
che voleva tagliarsi il cuore in alto mare.
(Suono di campane)
Dormiamo
maestro, che la pena si bagni e l’acqua perda i suoi significati, dormiamo
poeta, che non si svegli il toro dalle mille corna, anche se adesso non
potrebbe che correre verso nuove arene dove il sangue è una fioritura di nardi
e la sabbia, un bagno di cotoni.
Anche l’Amargo,
dal mantello notturno, senza più risposte né
sottoletti labirintici, in cerca di bambini sonnambuli per nuove romanze
fatte di piccole carezze, che non si svegli, che non cambi la sua natura di
girovago dei sogni.
Dormiamo vicino al cavallo che si nutre d’ali e vola
verso le lune delle signorine di Granada, le lune-cerchio ma con gli amori
vivi, tra Romeo e la sua amata e senza alcun veleno. Oppure batti sui tasti di una
vecchia poesia:
voce femminile
voce maschile
Mi chiedo se sanguinerà ancora
la rosa del suo respiro
sulla mia bocca,
mi chiedo se s’aprirà.
Grandi nubi oscurano
le ali bianche delle
parole.
Mi chiedo se tornerà uguale
la vasta ragnatela dei suoi occhi
dove m’impigliavo spesso
cercando quelle mani.
Nel mio petto di
roccia
dorme il canto eterno.
Che ne sarà del sogno
giunco senza fiume
dalia recisa, gabbiano smarrito
sospiro senza luna
gioia disuguale…
Una morte senza croce
invade la mente
Un cielo minore occlude
numerosi
sguardi infiniti.
Ricordi di
qualcosa che non si stacca dalle pareti dell’anima, di una poesia che divora il
sonno e non lascia residui.
Vola con le
tue parole ormai eterne, vola e penetra nei corpi, nell’ipotesi d’altro, che
sia aria, che sia bellezza mai estinta, che sia madre o vino buono.
Genera,
maestro, nuove terminazioni sempre più lontane, sempre più dentro.
Dal corno di
luce di una luna senza fidanzato, sottrai fili d’argento e fanne corde per la
grande arpa del mattino quando, ferito, batte la sua ala d’amore sulla terra derubata.
L’immenso
abbraccio dell’erba troppo cresciuta sul tuo petto di colomba, sii il risveglio
delle cornamuse nel canto del niño, che non volle morire alla
scadenza delle parole.
Sipario
Federico Garçia
Lorca
Il poeta spagnolo per eccellenza,
conosciuto in tutto il mondo nasce il 5 giugno 1898 a Fuente Vaqueros non
lontano da Granada da una famiglia di proprietari terrieri. I libri ce lo
descrivono come un bambino allegro, ma timido e pauroso, dotato di una
straordinaria memoria e di una passione evidente per la musica e per le
rappresentazioni teatrali; un ragazzo che non andava troppo bene a scuola ma
che era capace di coinvolgere nei suoi giochi un'infinità di persone.
I suoi studi regolari sono segnati da
numerosi problemi legati ad una grave malattia. Tempo dopo (nel 1915), riesce a
iscriversi all'università ma, cosa più importante, conosce il giurista Fernando
De Los Rios che gli rimarrà amico durante tutta la vita. Altri contatti
importanti in quel periodo furono quelli con il grandissimo musicista Manuel De
Falla e con l'altrettanto grande poeta Antonio Machado.
All'inizio degli anni '20 è invece a
Madrid dove si forma grazie ai contatti con artisti della fama di Dalì, Buñuel
ed in particolare Jimenez. Contemporaneamente si dedica alla scrittura di
lavori teatrali i cui esordi furono accolti con una certa freddezza.
Dopo la laurea la sua vita si riempie
di nuovi lavori, conferenze e nuove amicizie: i nomi sono sempre di alto
livello e vanno da Pablo Neruda a Ignacio Sánchez Mejías. Viaggia molto,
soprattutto tra Cuba e gli Stati Uniti, dove ha modo di saggiare in presa
diretta i contrasti e i paradossi tipici di ogni società evoluta. Attraverso
queste esperienze si forma in modo più preciso l'impegno sociale del poeta, ad
esempio con la creazione di gruppi teatrali autonomi la cui attivitá è
finalizzata allo sviluppo culturale della Spagna.
L'anno 1934 è segnato da altri viaggi e
dal consolidamento delle numerose e importanti amicizie, sino alla morte del
grande torero Ignacio Sánchez Mejías, avvenuta in quello stesso anno (ucciso
proprio da un toro infuriato durante una corrida), che lo costringe ad un
soggiorno forzato in Spagna.
Nel 1936, poco prima dello scoppio
della guerra civile, Garcia Lorca redige e firma, assieme a Rafael Alberti
(altro esimio poeta) ed altri 300 intellettuali spagnoli, un manifesto
d'appoggio al Frente Popular, che appare sul giornale comunista Mundo Obrero il
15 febbraio, un giorno prima delle elezioni vinte per un soffio dalla sinistra.
Il 17 luglio 1936 scoppia
l'insurrezione militare contro il governo della Repubblica: inizia la guerra
civile spagnola. Il 19 agosto Federico García Lorca, che si era nascosto a
Granada presso alcuni amici, viene trovato,
rapito e portato a Viznar, dove a pochi passi da una fontana conosciuta come la
Fontana delle Lacrime, viene brutalmente assassinato senza alcun processo.
Sulla sua morte Pablo Neruda così
scrive:
"L'assassinio di Federico fu per
me l'avvenimento più doloroso di un lungo combattimento. La Spagna è sempre
stata un campo di gladiatori; una terra con molto sangue. L'arena, con il suo
sacrificio e la sua crudele eleganza, ripete l'antica lotta mortale fra l'ombra
e la luce".
Delle sue opere, quella più
universalmente conosciuta é il "LLanto por la muerte de Ignacio Sánchez
Mejías" ('La cogida y la muerte') la cui struggente partecipazione
interiore ne fanno un'opera davvero di tutti. La morte e la sua negazione hanno
fatto invece diventare "A las cinco de la tarde" un termine comune a
tutte le latitudini e dovunque indicante la freddezza cieca del destino.
Sebastiano A.
Patanè Ferro
nasce
a Catania nel 1953 sotto l’acquario di febbraio. Fin da giovanissimo coltiva la
passione delle lettere che comincerà a sviluppare
con impegno negli anni ‘80 quando fonda il centro culturale e d’arte “Nuova
Arcadia” salotto di poesia e sede di numerosi reading. Numerose le
pubblicazioni in riviste e giornali del periodo, sia nazionali che internazionali.
Nel
1994 pubblica la raccolta poetica “Luna”.
Nel
2011 la Clepsydra Ed. pubblica le “poesie dell’assenza”
Nel
Giugno 2013, esce con la silloge di
poesie “gli angoli (aprono i loro acuti per ingoiarci)” datate 2010, introdotte
da Anila Resuli, per conto della Smasher Edizioni e, sempre per la Smasher, nel
febbraio 2014, il racconto “Ho incontrato un angelo”. Nel giugno 2015 “Il pescatore di fiori” per la Onirica Edizioni.
Presente
nelle antologie Metamotphosis, No job, Il cielo di Lampedusa e Kronos editi
rispettivamente da Versinvena, Smasher, Rayuela e Onirica Ed.
Indice delle letture
Piccola
poesia infinita di F.G.Lorca (Tr. Carlo Bo)
Casida
de la mano imposible - di F.G.Lorca
Il
cozzo e la morte - di F.G.Lorca (tr. S.A.Patanè-Ferro)
Elegia
- di F. G. Lorca (Tr. Carlo Bo)
(Ascolta,
disse la mia anima…) di Walt Whitmann
Gazzella
della morte oscura di F. G. Lorca (Tr. S.A.Patanè-Ferro)
Girandola
triste - di S. A. Patanè-Ferro
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