di Sebastiano A. Patanè-Ferro

sabato 6 giugno 2015

Sebastiano A. Patanè-Ferro - Lorca




Sbagliar strada
è arrivare alla neve
e arrivare alla neve
è pascolare per venti secoli le erbe dei cimiteri.
Sbagliar strada
è raggiunger la donna,
la donna che non teme la luce,
la donna che ammazza due galli in un secondo,
la luce che non teme i galli
e i galli che non sanno cantare sulla neve.
Ma se la neve sbaglia cuore
può venire il vento ostro
e poiché il vento non bada ai gemiti
dovremo pascolare ancora le erbe dei cimiteri.
Vidi due dolenti spighe di cera
che seppellivano un paesaggio di vulcani
e vidi due bambini pazzi
che spingevano in lacrime le pupille d'un assassino.
Ma il due non è mai stato un numero,
perché è un'angoscia e la sua ombra,
perché è la chitarra dove si dispera l'amore.
perché è la dimostrazione d'un altro infinito che non è suo
e sono le mura del morto
e il castigo della nuova resurrezione senza fine.
I morti odiano il numero due,
ma il numero due addormenta le donne
e poiché la donna teme la luce
la luce trema davanti ai galli.
e i galli soltanto sanno volar sulla neve
dovremo pascolar senza posa le erbe dei cimiteri.



Yo no quiero más que una mano,
una mano herida, si es posible.
Yo no quiero más que una mano,
aunque pase mil noches sin lecho.
Sería un pálido lirio de cal,
sería una paloma amarrada a mi corazón,
sería el guardían que en la noche de mi tránsito
prohibiera en absoluto la entrada a la luna.
Yo no quiero más que esa mano
para los diarios aceites y la sábana blanca de mi agonía
Yo no quiero más que esa mano
para tener un ala de mi muerte.
Lo demás todo pasa.
Rubor sin nombre ya, astro perpetuo.
Lo demás es lo otro; viento triste,
mientras las hojas huyen en bandadas.

  

Annaspa, annaspa tra i flutti il maestro, si dibatte tra frulli di pernici e occhi di vecchio poeta!
Figlio delle trame leggere o erede di rivoli di rosa granadino saltellante sulle spalline del flamenco delle grotte.
Margarita, Margarita, ascolta e innestati di musica!
Quanto tempo, maestro, dalle edere, quanto dai pianti nell’arena e quanta invenzione lungo le strade polverose nel tuo on the road in quell’Andalusia così madre senza mani, legata al patrocinio dei poeti ma senza occhi: li accecò una risacca vuota, una deviazione fenomenale d’imprudente vanità.
Ed io che parlo di me e di questa Cuba da esplorare!
Poi, poi, con le nuove risorse mi racconterò il perché, ora che da qui vedo il maestro che annaspa, e annaspa, soffocato dall’idiozia prima che dal fuoco.
(Sai Ignazio, ti ho raggiunto ma non ti afferro in questa nuova bellezza).
Mi chiesero se fossi amante o amato risposi nulla perché l’amore non ha parole ed è oscuro, e quello dei poeti ha sempre una fitta al ventre (specie nelle attese) che non risolve il verbo perché è maschio e femmina,
crudele e nudo come le cinghie strette alle caviglie nelle stazioni della polizia
“Che ci facevi là”, o qua, ma cosa importa del luogo o del perché se non hai transenne che separano.
Nel tempo delle classi si cercavano gli orpelli per muovere i liquidi degli occhi, ma quando rimasero solo le denunce, i cristalli aprirono il definitivo della intolleranza e nel contraddittorio i versi appianavano gli spari nel corridoio di poeti.
Che ti dicevo maestro, sono l’hermano di Conchita, ti sembra poco, morirò per questo lo sai?
Si che lo sai maestro e non t’importa, perché la parola non può essere trafitta. Non c’è lancia, diavolo, che regga un crocefisso!


(voci fuori campo)  

E’ morto, Ignazio è morto…


(rintocchi di campana)


Alle cinque della sera. 
Erano le cinque in punto della sera.
Un bambino portò il lenzuolo bianco
alle cinque della sera.
Una sporta di calce già pronta
alle cinque della sera.
Il resto era morte e solo morte
alle cinque della sera.
Il vento portò via i cotoni
alle cinque della sera.
E l’ossido seminò cristallo e nichel
alle cinque della sera.
Già combattono la colomba e il leopardo
alle cinque della sera.
E una coscia con un corno desolato
alle cinque della sera.
Cominciarono i suoni di bordone
alle cinque della sera.
Le campane d’arsenico e il fumo
alle cinque della sera.
Negli angoli gruppi di silenzio
alle cinque della sera.
Solo il toro ha il cuore in alto!
alle cinque della sera.
Quando venne il sudore di neve
alle cinque della sera,
quando l’arena si coperse di iodio
alle cinque della sera,
la morte pose le uova nella ferita
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Alle cinque in punto della sera.

Una bara con ruote è il letto
alle cinque della sera.
Ossa e flauti suonano nelle sue orecchie
alle cinque della sera.
Il toro già mugghiava dalla fronte
alle cinque della sera.
La stanza s’iridava d’agonia
alle cinque della sera.
Da lontano già viene la cancrena
alle cinque della sera.
Tromba di giglio per i verdi inguini
alle cinque della sera.
Le ferite bruciavano come soli
alle cinque della sera.
E la folla rompeva le finestre
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Ah, che terribili cinque della sera!
Erano le cinque a tutti gli orologi!
Erano le cinque in ombra della sera!


(rintocchi di campana)


Cosa c’è maestro, era meglio non ricordare?
L’essenza si muove da sola, non ha propulsori se non l’emozione da cui si genera e queste parole, maestro, queste parole, sono genesi di continue pulsazioni essenziali. Il dolore appartiene all’umanità, io stesso non ne sono affetto. Ma ci sono dolori, che non vengono dal  basso, dolori che nascono prima di noi e ci tengono in ostaggio, senza farci compagnia. Ricordi i crocifissi, maestro? Ricordi quante cattedrali attorno a quel dolore?
Ma non c’era solo quello, c’erano i dolori delle sepolture premature, dei ripari disabitati, di anime senza più cordicelle.
Nei toni lamentosi di certe elegie racchiudevi tutta la tua anima, maestro, fino a sentire sbriciolata, tutt’intorno, l’ inconsistenza dell’incenso attraverso le mani, ormai stanche, della morte.


(Suono di campane)


Come un turibolo pieno di desideri,
passi nella sera luminosa e chiara
con la carne scura di nardo appassito
e il sesso potente nel tuo sguardo.  
Porti sulla bocca la tua malinconia
di purezza morta e nella dionisiaca
coppa del tuo ventre il ragno che tesse
il velo infecondo che copre i visceri
mai fioriti con le rose vive
frutto dei baci.

Nelle tue bianche mani
porti la matassa delle tue illusioni,
morte per sempre, e sopra la tua anima
la passione affamata di baci di fuoco
e il tuo amore di madre che sogna lontane
visioni di culle in ambienti tranquilli,
filando tra le labbra l'azzurro della ninna-nanna.
 
Daresti come Cerere le tue spighe d'oro
se l'amore addormentato toccasse il tuo corpo,
e come la Vergine Maria potresti
far scaturire un'altra via lattea dai tuoi seni.
 
Appassirai come la magnolia.
Nessuno bacerà le tue cosce di brace.
Né ai tuoi capelli giungeranno le dita
che li tocchino come corde di un'arpa.
Oh donna potente d'ebano e di nardo!
il tuo respiro ha il candore dei finocchi.
Venere con la mantiglia di Manila che odora
del vino di Malaga e della chitarra.
 
Oh cigno bruno, hai loti di frecce
nel tuo lago, onde di arance
e spume di rossi garofani che effondono
profumi sui nidi appassiti sotto le tue ali!
 
Nessuno ti feconda. Martire andalusa,
i tuoi baci restano sotto le viti
pieni del silenzio notturno
e del ritmo torbido dell'acqua stagnante.
 
Ma le tue occhiaie si allargano
e i tuoi neri capelli si mutano in argento;
i tuoi seni profumati non son più duri
e iniziano a curvarsi le tue splendide spalle.  
Oh donna snella, materna e ardente!
Vergine dolorosa, tu porti inchiodate
tutte le stelle del cielo profondo
nel tuo cuore ormai senza speranza.
 
Sei lo specchio di un'Andalusia
che soffre giganti passioni e tace,
passioni agitate da ventagli
e mantiglie sulle gole
che hanno tremolii di sangue, di neve,
e graffi rossi fatti dagli sguardi.
 
Te ne vai nella nebbia dell'autunno, vergine
come Inés, Cecilia, e la dolce Clara,
mentre sei una baccante che avrebbe danzato
incoronata di verdi pampini e di vite.
 
La tristezza immensa che fluttua nei tuoi occhi
ci racconta la tua vita spezzata e fallita,
la monotonia del tuo ambiente povero
vedendo passare la gente dalla tua finestra,
e ascoltando la pioggia sull'amarezza
che ha la vecchia strada provinciale,
mentre risuonano lontano rintocchi
incerti e confusi di campane.
Ma invano hai ascoltato le voci dell'aria.
Non giunse mai ai tuoi orecchi la dolce serenata.
Dietro i tuoi vetri guardi ancora in attesa.
Che profonda tristezza hai dentro l'anima
se senti nel petto ormai spossato e stanco
la passione di una ragazza da poco innamorata!
Il tuo corpo scenderà nella tomba
intatto di emozioni.
Sulla terra scura
spunterà l'alba.
Dal tuoi occhi sorgeranno due garofani sanguinanti
e dai tuoi seni, rose come la neve bianca.
Ma la tua grande tristezza se ne andrà con le stelle,
come un'altra stella degna di ferirle ed oscurarle.


(Suono di campane)


Ma cambiamo discorso…
Vogliamo parlare di New York?
Di quando caddi sulle spine di Harlem o del bordone che ne riempiva l’aria?
Le signorine si davano da fare ma nel riscontro ci perdevano: troppo lontane dal Guadalquivir o dalle mani lunghe di Cordova.
Attorno ad un perpetuo e disordinato girovagare per la piazza, ronzava il triste rientro nella solitudine di un piccolo lettino senza visioni e prospettive.


Il grande sogno era Walt:


(voce maschile)

Ascolta, disse la mia anima,
scriviamo per il mio corpo (in fondo siamo una cosa sola)
versi tali
che se, da morto, dovessi invisibilmente tornare sulla terra,
o in altre sfere, lontano, lontano da qui,
e riassumere i canti a qualche gruppo di compagni
(in armonia col suolo, gli alberi, i venti, e con la furia delle onde),
io possa ancora sentire miei questi versi,
per sempre, come adesso che, per la prima volta, io qui segno il mio nome
firmando per l’anima e il corpo


Lo senti ancora, maestro, con la stessa intensità, oppure questa nuova luce che abbiamo negli occhi muta le risonanze e le vibrazioni?
Davvero le ampiezze ci limitano? davvero le lunghe scie di coralli tagliuzzano le parole o sono solo le calunnie dei viaggiatori delle stanze?
Io dico che sotto le ali della pernice, ci sono i figli degli assassinati per la parola, di quei parolai che mai colpiscono di spalle e ballano e cadono assieme ai giocolieri, proprio come quei fili di stelle che S. Lorenzo vuole a terra. Una stella così in basso non può splendere e nessuno stellone vi si fidanzerebbe.
Hai capito adesso, maestro, cosa voleva dire il re di Harlem?
Che cosa valgono adesso quelle cinque della sera? Dolore nel ricordare o remissione dell’incanto visto che siamo pari e di stessa sostanza?
Mugghia un fantasma di toro adesso, gira un capriolo rosa tra le edere del patio e nessun sintomo di poesia, solo curiosa mestizia per le dita indolenzite di una casa chiesa che potrebbe non esserci se fossi stato davvero lì con tutta la mente. Ma io, noi, siamo la gente che ascolta e sazia la sete di parole, di amori oscuri e musica!

Margarita, Margarita, ascolta!
Sciogli le trame del canto e intona quest’alba ché non rimanga duna il senso della sete.


(suono di chitarre)

(danzatori di flamenco)


Io sono Federico, quello rimasto lì è solo tanti vermi e una pallottola!

Non lo capisco quel ’35  e più che meno quel ’36 pieno di martirio e calce,  quando tutto il potere che, sbagliando direzione, dall’alto cadde sulle mani della bassezza e non capisco, maestro, come faccia un uomo a otto zampe a non sentirsi scarafaggio, pidocchio, piattola… e tutti quei morti in forma di medaglia o di piccole crocette decorate, o bandiere…?
C’erano le forme della ringhiera già nelle prime parole sature di niente e nelle allucinazioni, le pulizie per un marciapiede univoco per la direzione.
In questa nostra mente fiorivano a milioni i papaveri della Sierra e ogni fiore conteneva il mondo, un mondo che non era quello che volevamo, ma che certi scorpioni volevano cambiare in peggio!



(voce femminile)

Voglio dormire il sonno delle mele,
allontanarmi dal tumulto dei cimiteri.
Voglio dormire il sonno di quel bimbo
che voleva tagliarsi il cuore in alto mare.
Non voglio che mi ripetano che i morti non perdono sangue;
che la bocca marcita continua a chiedere acqua.
Non voglio saperne dei martirii che l'erba produce
né della luna con bocca di serpente
che lavora prima dell'alba.
Voglio dormire un momento,
un momento, un minuto, un secolo;
ma tutti sappiano che non sono morto;
che c'è una stalla d'oro sulle mie labbra;
che sono il piccolo amico del vento occidentale;
che sono l'ombra immensa delle mie lacrime.
Coprimi nell'aurora con un velo,
perché essa mi getterà manciate di formiche,
e bagna con acqua dura le mie scarpe
affinché sia elusa la pinza del suo scorpione.
Perché voglio dormire il sonno delle mele
per apprendere un pianto che mi purifichi dalla terra; 
perché voglio vivere con quel bimbo oscuro
che voleva tagliarsi il cuore in alto mare.


(Suono di campane)


Dormiamo maestro, che la pena si bagni e l’acqua perda i suoi significati, dormiamo poeta, che non si svegli il toro dalle mille corna, anche se adesso non potrebbe che correre verso nuove arene dove il sangue è una fioritura di nardi e la sabbia, un bagno di cotoni.
Anche l’Amargo, dal mantello notturno, senza più risposte né sottoletti labirintici, in cerca di bambini sonnambuli per nuove romanze fatte di piccole carezze, che non si svegli, che non cambi la sua natura di girovago dei sogni.
Dormiamo vicino al cavallo che si nutre d’ali e vola verso le lune delle signorine di Granada, le lune-cerchio ma con gli amori vivi, tra Romeo e la sua amata e senza alcun veleno. Oppure batti sui tasti di una vecchia poesia:
  

voce femminile
voce maschile


Mi chiedo se sanguinerà ancora
la rosa del suo respiro
sulla mia bocca,
mi chiedo se s’aprirà.

                      Grandi nubi oscurano
                      le ali bianche delle parole.

Mi chiedo se tornerà uguale
la vasta ragnatela dei suoi occhi
dove m’impigliavo spesso
cercando quelle mani.

                        Nel mio petto di roccia
                        dorme il canto eterno.

Che ne sarà del sogno
giunco senza fiume
dalia recisa, gabbiano smarrito
sospiro senza luna
gioia disuguale…

                         Una morte senza croce
                         invade la mente

Un cielo minore occlude
numerosi
sguardi infiniti.



Ricordi di qualcosa che non si stacca dalle pareti dell’anima, di una poesia che divora il sonno e non lascia residui.
Vola con le tue parole ormai eterne, vola e penetra nei corpi, nell’ipotesi d’altro, che sia aria, che sia bellezza mai estinta, che sia madre o vino buono.
Genera, maestro, nuove terminazioni sempre più lontane, sempre più dentro.
Dal corno di luce di una luna senza fidanzato, sottrai fili d’argento e fanne corde per la grande arpa del mattino quando, ferito, batte la sua ala d’amore sulla terra derubata.
L’immenso abbraccio dell’erba troppo cresciuta sul tuo petto di colomba, sii il risveglio delle cornamuse nel canto del niño, che non volle morire alla scadenza delle parole.


Sipario




Federico Garçia Lorca

Il poeta spagnolo per eccellenza, conosciuto in tutto il mondo nasce il 5 giugno 1898 a Fuente Vaqueros non lontano da Granada da una famiglia di proprietari terrieri. I libri ce lo descrivono come un bambino allegro, ma timido e pauroso, dotato di una straordinaria memoria e di una passione evidente per la musica e per le rappresentazioni teatrali; un ragazzo che non andava troppo bene a scuola ma che era capace di coinvolgere nei suoi giochi un'infinità di persone.

I suoi studi regolari sono segnati da numerosi problemi legati ad una grave malattia. Tempo dopo (nel 1915), riesce a iscriversi all'università ma, cosa più importante, conosce il giurista Fernando De Los Rios che gli rimarrà amico durante tutta la vita. Altri contatti importanti in quel periodo furono quelli con il grandissimo musicista Manuel De Falla e con l'altrettanto grande poeta Antonio Machado.

All'inizio degli anni '20 è invece a Madrid dove si forma grazie ai contatti con artisti della fama di Dalì, Buñuel ed in particolare Jimenez. Contemporaneamente si dedica alla scrittura di lavori teatrali i cui esordi furono accolti con una certa freddezza.

Dopo la laurea la sua vita si riempie di nuovi lavori, conferenze e nuove amicizie: i nomi sono sempre di alto livello e vanno da Pablo Neruda a Ignacio Sánchez Mejías. Viaggia molto, soprattutto tra Cuba e gli Stati Uniti, dove ha modo di saggiare in presa diretta i contrasti e i paradossi tipici di ogni società evoluta. Attraverso queste esperienze si forma in modo più preciso l'impegno sociale del poeta, ad esempio con la creazione di gruppi teatrali autonomi la cui attivitá è finalizzata allo sviluppo culturale della Spagna.

L'anno 1934 è segnato da altri viaggi e dal consolidamento delle numerose e importanti amicizie, sino alla morte del grande torero Ignacio Sánchez Mejías, avvenuta in quello stesso anno (ucciso proprio da un toro infuriato durante una corrida), che lo costringe ad un soggiorno forzato in Spagna.

Nel 1936, poco prima dello scoppio della guerra civile, Garcia Lorca redige e firma, assieme a Rafael Alberti (altro esimio poeta) ed altri 300 intellettuali spagnoli, un manifesto d'appoggio al Frente Popular, che appare sul giornale comunista Mundo Obrero il 15 febbraio, un giorno prima delle elezioni vinte per un soffio dalla sinistra.

Il 17 luglio 1936 scoppia l'insurrezione militare contro il governo della Repubblica: inizia la guerra civile spagnola. Il 19 agosto Federico García Lorca, che si era nascosto a Granada presso alcuni amici, viene trovato, rapito e portato a Viznar, dove a pochi passi da una fontana conosciuta come la Fontana delle Lacrime, viene brutalmente assassinato senza alcun processo.

Sulla sua morte Pablo Neruda così scrive:

"L'assassinio di Federico fu per me l'avvenimento più doloroso di un lungo combattimento. La Spagna è sempre stata un campo di gladiatori; una terra con molto sangue. L'arena, con il suo sacrificio e la sua crudele eleganza, ripete l'antica lotta mortale fra l'ombra e la luce".

Delle sue opere, quella più universalmente conosciuta é il "LLanto por la muerte de Ignacio Sánchez Mejías" ('La cogida y la muerte') la cui struggente partecipazione interiore ne fanno un'opera davvero di tutti. La morte e la sua negazione hanno fatto invece diventare "A las cinco de la tarde" un termine comune a tutte le latitudini e dovunque indicante la freddezza cieca del destino.



Sebastiano A. Patanè Ferro


nasce a Catania nel 1953 sotto l’acquario di febbraio. Fin da giovanissimo coltiva la passione delle lettere che comincerà a sviluppare con impegno negli anni ‘80 quando fonda il centro culturale e d’arte “Nuova Arcadia” salotto di poesia e sede di numerosi reading. Numerose le pubblicazioni in riviste e giornali del periodo, sia nazionali che internazionali.
Nel 1994 pubblica la raccolta poetica “Luna”.
Nel 2011 la Clepsydra Ed. pubblica le “poesie dell’assenza”
Nel Giugno 2013, esce con  la silloge di poesie “gli angoli (aprono i loro acuti per ingoiarci)” datate 2010, introdotte da Anila Resuli, per conto della Smasher Edizioni e, sempre per la Smasher, nel febbraio 2014, il racconto “Ho incontrato un angelo”. Nel giugno 2015 “Il pescatore di fiori” per la Onirica Edizioni.
Presente nelle antologie Metamotphosis, No job, Il cielo di Lampedusa e Kronos editi rispettivamente da Versinvena, Smasher, Rayuela e Onirica Ed.



Indice delle letture

Piccola poesia infinita di F.G.Lorca (Tr. Carlo Bo)
Casida de la mano imposible - di F.G.Lorca
Il cozzo e la morte - di F.G.Lorca (tr. S.A.Patanè-Ferro) 
Elegia - di F. G. Lorca (Tr. Carlo Bo)
(Ascolta, disse la mia anima…) di Walt Whitmann
Gazzella della morte oscura di F. G. Lorca (Tr. S.A.Patanè-Ferro)
Girandola triste - di S. A. Patanè-Ferro




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