Quando
leggo Vera Bonaccini, subisco lo stesso incantamento delle mie primissime
letture. Parlo del ’64, quando mi capitò tra le mani un libro dell’Einaudi,
“Giovani poeti americani”, che poi divennero il fior fiore della Beat Generation.
Ecco, questo è l’effetto che mi produce questa giovane poetessa-scrittrice milanese, trapiantata in liguria, che conobbi a Milano in una magnifica serata poetica al Macao.
Vera
Bonaccini, racconta il suo pensiero trasformandolo in poesia con grande
naturalezza, come se fosse quello l’unico linguaggio e dimostra, con la sua
scrittura, che il purismo ha delle debolezze che lo rendono sterile, freddo.
Ciao, volevo dirti che l'ha già fatto Queneau
ciao,
volevo dirti
che l’ha già fatto
Queneau,
che è possibile,
a volte,
anche solo ascoltare
e tenere per sé.
volevo dirti
che nei retrovisori
si perde il cielo,
che se un albero cade
nella foresta
rimane un vuoto
oltre la curva
del tuo orecchio
ingioiellato.
volevo dirti
della tristezza
pret-a-porter,
del misticismo laico
e delle carte fedeltà,
dell’ironia malata
del disegnare alberi
sopra la carta,
del paradosso idiota
di saccheggiare il Louvre
per farne un altro Louvre.
volevo dirti
che il suono di una mano
quando applaude
ricorda quello
di un ruscello gambizzato.
[tentativo di
esaurimento
di un luogo
cerebrale.
meglio Parigi.]
La
sua espressione è confidenziale, un suggerimento di amichevole conversione a
schemi maggiormente tolleranti. Lo definirei quasi un: “guarda da qui, vedi la
stessa cosa?”. Vera, osserva con un certo distacco, la realtà che la circonda e
questo non vuol dire che non soffra i mali che la riempiono, anzi, si indigna, ne
rimane offesa e disgustata, ma lo fa con pacatezza, senza quell’urlo spesso
inutile che diventa solo rumore, lei lo fa con misura e il suo urlo, gridato
piano, diventa una lama che squarcia, un terremoto che distrugge il vano e
tutto quell’inutile che ci sta attorno. Lei, con la sua forza impetuosa e
carsica, abbatte le ovvietà che opprimono i larghi orizzonti, e che offuscano la
vera bellezza e la poesia stessa che è l’origine della sua forza.
Un requiem per i mesi in cui fa caldo
e Maya si è dimenticata
il velo sull’ultima corsa
della 90 a Piazzale Lotto
una Domenica notte ubriaca
di fine Maggio
senza le scarpe a combattere
l’asfalto
e Giano bifronte
si fa i selfie bipolari
sushi vegano con la camicia
bianca
[quella nera per gli amici
neonazisti]
all’ora dell’aperitivo è
ancora Aprile
e fioriscono le milf e il
botulino
Prometeo promette arrogante
la Conoscenza dai cartelloni
elettorali
e il fuoco purificatore senza
pietas
per i nemici della Patria e
della Mamma
ed è già Giugno e si muore
col sorriso
Poseidone sfoggia raggiante
la Bandiera Blu che si è
appena tatuata
e ammicca alle turiste
provocanti
allontanando i clandestini
con la mano
e viene Luglio
sudando l’ansia in discoteca
Anansi racconta puttanate
alle famiglie che aspettano
il traghetto
in fila come bestie sotto al
sole
rabbia compatta
ripiegata ad infradito
ed ecco Agosto
ed è la vita che si ferma
pigiata stretta attorno a un
ombrellone
Ma poi a Settembre ecco Kalì
spendere miliardi in manicure
la green economy – la beauty
farm
e gli oli per capelli alla
sirena
per sgomberare gli abusivi
dall’altalena
e Maya ritrova il velo
al Parco Lambro
un pomeriggio di un mese a
caso
steso su un corpo
e si allontana lentamente
pedalando
fischiando un requiem
per i mesi in cui fa caldo.
Si,
mi incanta, Vera Bonaccini, perché è poeta, perché è vera di fatto, perché è guerriera con la sola arma della parola, perché dà
senza nulla chiedere abolendo quel do ut
des che per lei ha senso solo nel
business e non nella vita, quella guidata dall’anima prima che dalla ragione.
Nessun motivo, nessun cielo e neanche il mare
che poi io di te direi lo
stesso
[l'ambivalenza emotiva
dell'ego-pace]
definitiva la non
accettazione
dell’esistenza di anime
autoimmuni
il vago tentativo di
concepire
suicidi dilatati in meridiani
quando il vento scuote le
foglie amaramente
tra i nostri passi di sole e
suole circolari,
di carri_armati per conflitti
[in]dichiarati
che poi io di te dirò lo
stesso
nocche disgiunte dalle
preghiere laiche
e un’ombra nera vaporizzata
nelle tasche,
fiori recisi mutati in pietre
a zavorrare
nessun motivo, nessun cielo e
neanche il mare
a suturare con dita
competenti
la ferita cieca di chi resta,
lo sciabordio insistente e
senza pace
di schegge d’ossa dentro la
testa.
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