di Sebastiano A. Patanè-Ferro

venerdì 9 marzo 2018

Vera Bonaccini



Quando leggo Vera Bonaccini, subisco lo stesso incantamento delle mie primissime letture. Parlo del ’64, quando mi capitò tra le mani un libro dell’Einaudi, “Giovani poeti americani”, che poi divennero il fior fiore della Beat Generation. Ecco, questo è l’effetto che mi produce questa giovane poetessa-scrittrice milanese, trapiantata in liguria, che conobbi a Milano in una magnifica serata poetica al Macao.
Vera Bonaccini, racconta il suo pensiero trasformandolo in poesia con grande naturalezza, come se fosse quello l’unico linguaggio e dimostra, con la sua scrittura, che il purismo ha delle debolezze che lo rendono sterile, freddo.



Ciao, volevo dirti che l'ha già fatto Queneau


ciao,
volevo dirti
che l’ha già fatto
Queneau,
che è possibile,
a volte,
anche solo ascoltare
e tenere per sé.

volevo dirti
che nei retrovisori
si perde il cielo,
che se un albero cade
nella foresta
rimane un vuoto
oltre la curva
del tuo orecchio
ingioiellato.

volevo dirti
della tristezza pret-a-porter,
del misticismo laico
e delle carte fedeltà,
dell’ironia malata
del disegnare alberi
sopra la carta,
del paradosso idiota
di saccheggiare il Louvre
per farne un altro Louvre.

volevo dirti
che il suono di una mano
quando applaude
ricorda quello
di un ruscello gambizzato.

[tentativo di
esaurimento
di un luogo
cerebrale.
meglio Parigi.]


La sua espressione è confidenziale, un suggerimento di amichevole conversione a schemi maggiormente tolleranti. Lo definirei quasi un: “guarda da qui, vedi la stessa cosa?”. Vera, osserva con un certo distacco, la realtà che la circonda e questo non vuol dire che non soffra i mali che la riempiono, anzi, si indigna, ne rimane offesa e disgustata, ma lo fa con pacatezza, senza quell’urlo spesso inutile che diventa solo rumore, lei lo fa con misura e il suo urlo, gridato piano, diventa una lama che squarcia, un terremoto che distrugge il vano e tutto quell’inutile che ci sta attorno. Lei, con la sua forza impetuosa e carsica, abbatte le ovvietà che opprimono i larghi orizzonti, e che offuscano la vera bellezza e la poesia stessa che è l’origine della sua forza.



Un requiem per i mesi in cui fa caldo


e Maya si è dimenticata
il velo sull’ultima corsa
della 90 a Piazzale Lotto
una Domenica notte ubriaca
di fine Maggio
senza le scarpe a combattere l’asfalto

e Giano bifronte
si fa i selfie bipolari
sushi vegano con la camicia bianca
[quella nera per gli amici neonazisti]
all’ora dell’aperitivo è ancora Aprile
e fioriscono le milf e il botulino

Prometeo promette arrogante
la Conoscenza dai cartelloni elettorali
e il fuoco purificatore senza pietas
per i nemici della Patria e della Mamma
ed è già Giugno e si muore col sorriso

Poseidone sfoggia raggiante
la Bandiera Blu che si è appena tatuata
e ammicca alle turiste provocanti
allontanando i clandestini con la mano
e viene Luglio
sudando l’ansia in discoteca

Anansi racconta puttanate
alle famiglie che aspettano il traghetto
in fila come bestie sotto al sole
rabbia compatta
ripiegata ad infradito
ed ecco Agosto
ed è la vita che si ferma
pigiata stretta attorno a un ombrellone

Ma poi a Settembre ecco Kalì
spendere miliardi in manicure
la green economy – la beauty farm
e gli oli per capelli alla sirena
per sgomberare gli abusivi dall’altalena

e Maya ritrova il velo
al Parco Lambro
un pomeriggio di un mese a caso
steso su un corpo
e si allontana lentamente pedalando
fischiando un requiem
per i mesi in cui fa caldo.


Si, mi incanta, Vera Bonaccini, perché è poeta, perché è vera di fatto, perché è guerriera con la sola arma della parola, perché dà senza nulla chiedere abolendo quel do ut des  che per lei ha senso solo nel business e non nella vita, quella guidata dall’anima prima che dalla ragione.



Nessun motivo, nessun cielo e neanche il mare


che poi io di te direi lo stesso
[l'ambivalenza emotiva dell'ego-pace]
definitiva la non accettazione
dell’esistenza di anime autoimmuni
il vago tentativo di concepire
suicidi dilatati in meridiani
quando il vento scuote le foglie amaramente
tra i nostri passi di sole e suole circolari,
di carri_armati per conflitti [in]dichiarati

che poi io di te dirò lo stesso
nocche disgiunte dalle preghiere laiche
e un’ombra nera vaporizzata nelle tasche,
fiori recisi mutati in pietre a zavorrare

nessun motivo, nessun cielo e neanche il mare
a suturare con dita competenti
la ferita cieca di chi resta,
lo sciabordio insistente e senza pace
di schegge d’ossa dentro la testa.



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