Gran parte dei testi del tuo
libro, portano come titoli oggetti di riferimento consumistico e/o
pubblicitario, oggetti sui quali ironizzi (spesso fino al decadimento verso il
drammatico) mostrando la loro futilità o non assoluta utilità davanti a fattori che poni innanzi a
tutto, per una vita che richiede un “più profondo”. Chiedo:
In che misura la catastrofe
di Chernobyl ha cambiato il tuo pensiero e quindi la tua poetica?
Non direi che la catastrofe
di Chernobyl abbia cambiato il mio pensiero. Direi più che altro che gli ha
dato un nome. Pensate al cielo di Chernobyl, il giorno dopo il disastro: dicono
che fosse sbriluccicante di stelle, che fosse bellissimo. Eppure, era il giorno
dopo il disastro e tutta la zona circostante fu evacuata. I danni, sono tuttora
vivi e vegeti – almeno quanto irreparabili.
L’inganno di quel cielo è lo
stesso dell’amore, quando il disincanto arriva e comprendi che il mondo delle
bambole era una verità impacchettata al solo scopo di venderti uno specifico
stereotipo di vita, lontano anni luce dalla propria individualità.
Capisci che tutto un sistema,
in un universale accordo di media, vuole venderti una vita che non è la tua,
anche in comode rate mensili(“per tutto il resto, c’è mastercard”).
Ecco, questo posto, questo
luogo e questo (dis)amore, si chiama “Chernobylove”.
Nella struttura
semantico-lessicale della tua poesia, il quotidiano interferisce oppure ne è il nucleo?
Il quotidiano, nella mia
struttura, è il nucleo, nonché il perimetro e tutta l’aria compresa, dentro. Ma
anche ciò che resta fuori, a margine, come un clima o, magari, una stagione.
Il quotidiano, che amo
chiamare vita, e non solo mia, s’intende, è il palcoscenico di ogni
accadimento, figlio dei vizi e dei pregi della contemporaneità cui
apparteniamo.
Persino quando prendo
“tangenti” visionarie, mi resta impossibile dissociarmene. Per questo motivo,
talvolta, avverto la necessità di dare un’anima persino alle cose che mi stanno
attorno.
Quelle che uso, intanto che
vivo.
Quanto influisce la tua
radice pugliese?
La mia terra, è figlia della
rabbia, della rassegnazione e dell’abitudine. La dicono tutta i muri a secco
sui perimetri degli uliveti: pietre sulle pietre cotte di sole ed irremovibili
e abitate, negli interstizi, da infinite civiltà di organismi, come se il
mondo, come se tutto il mondo, fosse quei buchi. E quelle pietre.
Una di quelle pietre, sono
io. Qualche volta, mi ribello, però. Forse, spesso. O, forse, non faccio altro
che quello.
Perdonami la divagazione, ma
questo, è l’unico modo che conosco per rispondere a questa domanda.
Grazie a Francesca Pellegrino
e auguri per la sua attività
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